Nel tentativo di definire la cifra della cosiddetta hispanidad o de lo hispánico, gli intellettuali spagnoli dell’inizio del secolo XX, hanno cercato di modellare un carattere riconosciuto e riconoscibile del proprio pensiero che consentisse loro d’inserirsi in un ambiente europeo molto avanzato e, allo stesso tempo, di conservare la propria identità iberica.
L’autrice del presente libro individua in questo processo di costruzione identitaria la genesi di uno dei concetti più conosciuti di Ortega y Gasset, quello di circostanza proprio perché «la prima “circostanza” da cui è impossibile prescindere è quella geografica, storica, culturale che però è collocata in una “circostanza” più ampia, quella europea. Il rispetto della “circostanza”, el “saber a qué atenerse” è una forma di realismo» (p. 9).
Gli intellettuali spagnoli dell’inizio del secolo scorso si dovettero muovere spinti da esigenze drammatiche e urgenti, che imponevano un cambiamento radicale dei modi di vivere e, nel contempo, rischiavano di frantumare il carattere di unicità del pensiero spagnolo, le cui caratteristiche principali potrebbero essere ricercate nel «gusto per la logica, la preoccupazione morale e politica, la nostalgia dell’assoluto e la presenza di una filosofia medica» (p. 12). Una cultura che nasce da un profondo contatto con la vita e che guarda continuamente alla vita umana (cfr. ibidem).
L’insoddisfazione per la categoria dell’essere, conduce alcuni filosofi spagnoli a porre al centro dei propri interessi il corpo in cerca di «una metafisica che sia aldilà dell’ontologia» (p. 17).
Ortega y Gasset attratto fatalmente dalla necessità di «una cultura che non si allontani dalla vita, cadendo in un razionalismo astratto o in uno spiritualismo disincarnato» (p. 30), individua nella questione del corpo un potente luogo di riflessione filosofica perché si tratta di «un tema d’insuperabile attualità, perché l’uomo europeo va dritto verso una gigantesca rivendicazione del corpo, verso una resurrezione della carne» (p. 32).
Del corpo Ortega è interessato a indagare i fenomeni percettivi e d’individuazione e grazie a un’attenta analisi della percezione (ma sarebbe meglio dire della propriocezione) elabora la nozione d’intracuerpo rilevando la duplice conoscenza – una esteriore, l’altra dall’interno – che abbiamo di esso.
Ortega la definisce come la «coscienza di un tutto più o meno articolato, che è indipendente e precedente dalle sensazioni organiche, perché si manifesta in modo autonomo, come un dato di fatto presente a noi stessi» (p. 38); grazie a questa “scienza della sensazione del corpo proprio”, elabora una somatologia che rende più concreta la realtà dell’uomo (p. 39).
L’antropologia orteghiana attraverso il concreto apporto della circostanza, individua nella persona tre io distinti ma inseparabilmente articolati: l’io della sfera psicofisica, l’io dell’anima e l’io spirituale. Spetta all’analisi filosofica «definire in che rapporti siano i tre “io” e quale tra essi costituisca più autenticamente la persona» (p. 42).
Ortega individua la vita autentica nella vita dell’anima, che dal suo centro emana gli atti individuali e da tutto questo si può ricavare una caratterologia – ci sono uomini in cui prevale lo spirito e altri dominati dalla vitalità del corpo – e anche un’analisi delle manifestazioni culturali, perché «vi sono dei periodi in cui predomina il corpo, epoche “corporaliste” che si concentrano soprattutto sulla dimensione carnale dell’uomo e altre che vedono invece nella carne solo lo specchio dell’anima» (p. 43). Allo stesso modo, è possibile tipizzare le epoche storiche in base alla predominanza di corpo, anima o spirito (p. 45).
L’antropologia orteghiana non evolve verso una socialità indispensabile, perché il sociale si origina sempre a livello individuale, l’essere umano può isolarsi e rinchiudersi in se stesso in ogni momento e in ogni occasione, sprofondare nell’intimità: ensimismarse (p. 45). La vita sociale costringe a uscire da sé e il rischio è sempre quello dello smarrimento nella massa.
L’uomo vive una solitudine radicale, che la socializzazione può solo dissimulare e le tecniche di convivenza (come il saluto) possono aiutare a sopportare, ma non a risolvere. Per Ortega, «dalla gente non si può passare al prossimo, dall’impersonale si […] è impossibile giungere al tu e al noi, se non attraverso un cambiamento radicale di contesto e una trasformazione della qualità delle relazioni. Il sociale è per definizione inautentico […] regno dell’anonimato e dello stereotipo» (p. 69).
Ortega s’interessa di tutte le sfaccettature dell’uomo, dal suo progetto iniziale, che definisce e indirizza il suo comportamento, sino all’amore che, superando l’ubiquità della finzione sociale, rappresenta uno stato di eccezione che permette il disvelarsi dell’intimità propria e altrui senza le finzioni imposte dalle regole del vivere comune (cfr. p. 81).
Julián Marías (allievo di Ortega e poi filosofo in grado di costruire la propria autonomia speculativa) rimprovera al maestro un certo aristocraticismo borghese (p. 68) e una visione dell’amore troppo fugace, che non rende la profondità dell’amore che dura nel tempo e svela il carattere d’intimità tra uomo e donna (p. 84).
L’amore coniugale rivela il carattere duraturo, che si fonda sulla matrice solida della condivisione della vita quotidiana che la fugacità dell’innamoramento orteghiano in qualche modo, tende a non considerare (p. 87), preferendo innalzare al rango dell’amore solo la fascinazione dell’innamoramento iniziale.
Marías elaborerà una propria antropologia, che si fonderà sulla “struttura empirica della vita umana” costituita dai caratteri della nostra esistenza che appaiono all’osservazione immediata, i quali né sono a priori né appartengono alla storia individuale. Requisiti stabili e universali che «rappresentano le modalità di inserimento dell’uomo nella storia e le condizioni previe di ogni vita umana quando si realizza nel tempo» (p. 92). Questi requisiti sono intelligibili solo se inseriti nella narrazione biografica che sintetizza in un ordine di senso la corporeità, la sensibilità, la temporalità, la mondanità e la condizione sessuata (p. 111).
Rifiutando la visione pessimista di un uomo gettato nella vita per la morte, Marías elabora in tutta la sua produzione filosofica dei concetti cardine in grado di guidare l’indagine sull’uomo: il significato del termine struttura corporea; la corporeità come forma concreta della mondanità o circostanzialità; il carattere carenziale del corpo umano; la dimensione compensativa ed espansiva della tecnica; la condizione sessuata della vita umana e la differenza tra sessuato e sessuale; la dimensione simbolica del corpo, in quanto espressione d’intimità (p. 118).
Marías è attento osservatore della vita quotidiana e mette in luce gli sviluppi antropologici del vissuto umano: la prossimità dei corpi, la carezza, la cura dei particolari estetici nella donna, la struttura drammatica del volto, le dinamiche del riconoscimento, la condizione amorosa, i mutamenti storici e sociali della condizione femminile (p. 162).
Maria Teresa Russo pur riconoscendo a entrambi i pensatori che ha analizzato il merito di «aver condotto la loro analisi muovendosi sempre sul piano esistenziale, a livello dell’esperienza quotidiana, attraverso un metodo che privilegia la narrazione piuttosto che l’argomentazione, sfidando il rischio della mancanza di rigore e dell’assenza di sistematicità» (p. 173), sembra riporre la sua fiducia sull’analisi di Marías, perché le appare più consapevole del fatto che «la concezione orteghiana vada integrata e collocata all’interno di una metafisica, per evitare la deriva dello storicismo assoluto» (p. 176).
Ortega è troppo pessimista e insistendo troppo sulla radicalizzazione della vita come compito, riduce il corporeo a una dimensione dotata di esistenza ma non di essenza. Marías invece, conservando lo stupore del mistero della persona umana, pur leggendo incessantemente e con profondità il linguaggio del corpo, individua il centro dell’uomo aldilà del corpo stesso (p. 178).
Con questo libro l’autrice ci permette di leggere le categorie del corporeo attraverso necessità di senso molto più profonde. Vi ricostruisce con abilità e partecipazione emotiva – fatto dimostrato dal largo spazio concesso al ruolo e alla funzione della donna – il pensiero di questi due maestri del pensiero spagnolo e c’introduce abilmente nella dimensione antropologica, che non è mai una vivisezione della carne ma sempre e comunque un’esaltazione della dignità e unicità persona.
PIETRO PIRO